giovedì 25 ottobre 2012

• Antonio Meneghetti come l’apprendista stregone di Walt Disney


Un "tuttologo del niente", un "nientologo del tutto"... La definizione di paraguru ultimamente va molto di moda fra i giornalisti: nel senso che critici eminenti e grandi firme hanno dato del paraguru a qualche loro giovane collega, del quale evidentemente hanno scarsa considerazione (l'ultimo al quale è stato appioppato è un conduttore di Uno Mattina). In effetti, anche nell'ottica dell'ontopsicologia quello del giornalismo, fatto seriamente, è un mestiere che non si improvvisa. Basta leggere "Critica del giornalismo e ipotesi di rifondazione autentica", nel libro "Sistema e personalità" dato alle stampe già da svariati anni dalla Ontopsicologia Editrice. Si legge nella premessa "La pubblicazione di questo capitolo è derivata dalla carenza di valore riscontrata nell'operare 'la notizia'. Dall'iniziale notizia come servizio di cronaca, si è giunti dovunque a un sistematico assalto a rullo compressore dell'intimo del lettore e stravolgimento della realtà sociale". E' aberrante vedere che per vendere si ricorra a notizie che sicuramente sono in grado di attirare l'attenzione, perchè suscitano la curiosità morbosa del grande pubblico, ma che poi di sostanziale non dicono nulla. Ecco una notiziona: in Italia esiste una potentissima setta, chiamata Ontopsicologia, capitanata da un guru esperto di occulto, Antonio Meneghetti, armato di bacchetta magica e poteri ipnotici...gli adepti sono tutti somiglianti alle Witch e a Dragonball. Contenti? Ma per favore, un minimo di serietà....

Psicotea di Antonio Meneghetti

Molte correnti di pensiero assegnano una funzione terapeutica alla drammaturgia e ciascuna di queste correnti usa in modo diverso l’attività di drammatizzazione all’interno della pratica psicoterapeutica. Poiché tutto ciò che era drammatizzazione e teatro mi ha sempre affascinata, mi sono spesso chiesta perché e fino a che punto la drammaturgia potesse essere di aiuto nella scomparsa di sintomi e nella crescita personale. Qualche tempo fa, in Brasile, ho partecipato, in qualità di spettatrice, ad una psicotea, uno strumento di intervento – messo a punto dalla scienza ontopsicologica – che fa della rappresentazione teatrale un mezzo per migliorare se stessi e la propria vita. Davanti a me vedevo lo svilupparsi di una storia improvvisata (su un canovaccio abbozzato dal regista-conduttore) interpretata da attori altrettanto improvvisati, e mi sono resa conto che la “personalità” di uno degli attori era molto simile alla mia e, in particolare, che quell’attore sulla scena (o nella vita?) cadeva sempre nello stesso errore ripetitivo, quello stesso errore ripetitivo e mai nuovo che caratterizzava costantemente la mia vita, come se dentro di me ci fosse un regista che decideva per me cosa avrei fatto, come avrei agito e dove avrei sbagliato. In quel momento mi sono resa conto che, nella conduzione della mia vita, potevo considerarmi non un protagonista responsabile come avevo sempre creduto, bensì un attore con i fili, un burattino. Poi, successivamente, dopo la rappresentazione scenica, grazie all’analisi razionale condotta dall’esperto-regista e la soluzione da lui data, da quella prima consapevolezza è emersa la possibilità per me di scoprire me stessa e di provare a diventare protagonista della mia vita.

AMMAZZARE IL TEMPO? UN OMICIDIO A EFFETTO BOOMERANG


Tempo di vacanze, tempo di ferie. Come trascorrerlo? Sembra una domanda innocente ma non lo è. “I momenti di vacatio (mancanza di azione) – ricorda Antonio Meneghetti, fondatore dell'Ontopsicologia - erano momenti in cui gli antichi romani erano soliti dedicarsi all'ozio, ossia ad uno spazio riservato esclusivamente a se stessi, nel quale riamministrare le proprie idee, la propria posizione, la propria organizzazione di se stessi e di se stessi in mezzo agli altri, in mezzo alle cose della società, in mezzo alle cose del mondo”.
Ecco allora che il tempo libero, ben lungi dal consentire di fronte all'etica della propria vita un'indiscriminata evasione, impone scelte di qualificato piacere ed effettiva rigenerazione fisica, psichica ed intellettuale. Un criterio importante soprattutto per chi è in prima fila in ruoli di responsabilità sociale o gestione d'impresa. “Tutti gli impresari – scrive al riguardo Meneghetti - non si rovinano quando lavorano, ma quando sono in vacanza, quando hanno del tempo libero. E' durante il tempo libero che si impara la propria corruzione, il proprio abbassamento. La svendita, il disperdere in modo irresponsabile la nostra vita, la nostra anima, avviene sempre durante il tempo libero”.
Tempo di vacanze, tempo di ferie...? Siete colti dalla tentazione di 'ammazzare il tempo' in un modo o nell'altro senza farvi troppe domande...? Attenti: sarebbe un omicidio ad alto effetto boomerang. Perché, “se vi perdete ad ammazzare il tempo, poi sarà il tempo ad ammazzare voi”. Parole di un guru? No, solo parole dettate dal buon senso!

lunedì 15 ottobre 2012

La doppia morale secondo Antonio Meneghetti


La doxa societaria praticamente è la virologia meccanica che impedisce all'uomo di essere produttore creativo di vita.
Doppia morale, in accordo con il pensiero di Antonio Meneghetti, vuol dire che praticamente si insegna la convivenza con la legge sociale, senza però smentire il proprio progetto di natura. Si entra nel sistema, ma si mantiene fuori sempre un piede a garanzia della propria libertà. Quando si spiega questo concetto al giovane è necessario sottolineare come lui sia comunque un inferiore di situazione (attenzione di situazione e non a livello personale. Di situazione vuol dire che in quanto giovane lui è sempre sotto le regole del sistema perché non ha ancora potere e autonomia); che il mondo degli adulti lo ha individuato come risorsa da legare alle loro necessità soprattutto nel mondo del lavoro; che guadagnarsi la libertà nel sociale significa essersela guadagnata prima di tutto in famiglia che comunque va sempre rispettata.
Oggi c'è stata un'accelerazione enorme per quello che è il cambio generazionale. Però questi giovani che hanno un'accelerazione nell'attività si ritrovano con una burocrazia molto lenta. Una burocrazia che devono imparare a gestire. Perché se loro vanno fuori democrazia o fuori legge ecco che il mondo dell'adulto li ha imbrogliati. In questo caso per capire il funzionamento del sociale il giovane deve solo fare, agire. Non ha ancora l'esperienza che può sorreggerlo perché è ancora inesperto. In un secondo tempo potrà basarsi sulla sua competenza e maturità, ma prima è inutile. Deve farla in prima persona per capire le logiche del sistema.

Stress in città? Riducilo con l’ecobiologia - Cucina Viva

Nella loro grande saggezza, gli antichi Romani avevano capito come fosse ristoratrice l’attività campestre, la res rustica, per l’uomo impegnato nella vita pubblica. L’esempio classico è Plinio il Giovane, avvocato e poi procuratore, che ripetutamente nelle Lettere racconta lo svago che gli procurano le sue ville campestri. Qui, egli può dedicarsi alla contemplazione della natura. Oggi, per la maggior parte di noi che vive in grandi città, si può ricorrere a un palliativo, un “orto cittadino” che, nel suo piccolo, porti nella nostra quotidianità un po’ del piacere della res rustica. Può essere una fioriera sul davanzale, una piccola serra ricavata tra due muri confinanti, o un vero e proprio orto per chi ha un piccolo giardino annesso. Nei pochi istanti che ci dedicheremo, ci ricorderà la tranquillità che segue la crescita nel corso della natura, aiutandoci a relativizzare la fretta della vita cittadina. L’orto cittadino è un piccolo momento di ecobiologia, che Antonio Meneghetti nel libro “La Cucina Viva” descrive come “un insieme di più cose ordinate e sincrone [che] insegna a saper vivere con qualità superiore la propria vita, insieme con l’ecosistema naturistico. Insegna quindi a saper connettere il macrocosmo vivente con il nostro microcosmo quotidiano, propone di saper costruire senza distruggere, di usare edilizia, energia organica e una confortevole bioarchitettura secondo logistica di sanità del corpo, e trasparenza viva con la natura.”

Ontopsicologia e stereotipi

L’Ontopsicologia è una delle moderne Scuole di psicologia. Si inscrive nel filone della psicologia esistenziale umanistica. Lavora con successo in campo clinico e nella realizzazione della persona secondo l’oggettiva intenzionalità di natura. Particolarmente rilevante è la soluzione data al problema degli stereotipi, attraverso una pedagogia che permetta lo sviluppo del progetto base di natura, al di là del ruolo biologico. Il fascio di stereotipi, complessi e devianze non sono basati sulla natura in sé dell’uomo, ma su sovrapposizioni informatiche (“doxa societaria”) che via via, attraverso la famiglia, sono state introdotte e stabilizzate come Io logico storico, diventando così il caratteriale cosciente volontario, che effettua il determinsmo storico dell’individuo. Secondo l’Ontopsicologia, all’interno di questo fascio di informazioni aggiunte, si causano tutte quelle devianze psicobiologiche, individuali e sociali, che aprono la casistica di tutte le anomalie. Il compito è di riscoprire e isolare i segnali del progetto base di natura o In Sé ontico. “L’Ontopsicologia apre il proprio metodo di analisi di identità e di intervento funzionale, distinguendo per natura, per campo semantico, per logica di immagini e per risultati oggettivi, la possibilità razionale di discrimanare, controllare e dare crescita evolutiva secondo l’intrinseca specificità del soggetto”.

domenica 14 ottobre 2012

Individuo e società

Il rapporto tra individuo e società costituisce inevitabilmente un problema dialettico. Per Antonio Meneghetti l’argomentazione si incentra sul modo in cui risolvere questa relazione biologica ed esistenziale tra persona e gruppo. Non si può saltarla né eliminarla perché, qualora ciò avvenisse, intrinsecamente verrebbe eliminato anche l’individuo: l’individuo si radica nel sociale ed il sociale è fatto di individui. Di conseguenza, un’isolata soluzione, principiata e finalizzata per l’individuo, evitando tutto ciò che è la relazione con qualsiasi immagine del sociale, non solo è estremamente ingenua, ma significa essere completamente fuori. La maturità dell’individuo si forma per inevitabile dialettica biologica, psicologica e politica, sul modo di metabolizzare il sociale.

L’uomo e la società


“Società” è un concetto vasto che può assumere, a seconda del contesto, significati diversi, ad es.:
1) insieme di persone che vivono insieme e hanno leggi e istituzioni comuni
2 (nella zoologia) gruppo organizzato che vive in comune
3) associazione di persone che ha un fine comune
4) impresa che svolge un’attività economica
5) unione di due o più persone a scopo commerciale
6) ceto, ambiente elevato
Antonio Meneghetti così spiega il concetto di “società”:
“La società è l’insieme degli individui che si danno delle regole per gestire le relazioni tra ogni singolo componente. Essa è imprescindibile per l’uomo che ne è l’artefice e il costruttore, e con la quale è indissolubilmente collegato in una interazione dinamica continua.
Questo è il punto di relazione tra individuo e società ed è inteso in modo positivo, per consentire la continuità della specie in evoluzione civile.”

sabato 13 ottobre 2012

L’evoluzione in progress: una responsabilità e un’opportunità


In Ontopsicologia si apprende che quando la nostra vita è sincrona al nostro In Sé ontico, uno degli effetti che “naturalmente” si riscontrano è il raggiungimento di risultati in costante progress. Ciò che ci anima da dentro, quindi, ha una costante sete di nuovi orizzonti e traguardi: non è una frenesia, ma una ordinata costruzione che, mattone dopo mattone, permette all’individuo di ampliare con coerenza e proporzione il proprio raggio di azione storica e sociale.

Questo implica una grande responsabilità da parte dell’operatore, soprattutto quando raggiunge una mèta: uno dei rischi è infatti quello di fermarsi sull’obiettivo raggiunto pensando che, una volta riempito il bicchiere, quel “pieno” sia comunque una conquista “per sempre” . Invece è esattamente il contrario: l’In Sé ontico è motivato all’evoluzione per cui, ai suoi occhi, la stasi e la non-evoluzione equivalgono a una regressione. L’obiettivo che si raggiunge in un certo momento di vita non ha per il soggetto la stessa valenza man mano che il tempo passa. Si tratta infatti di qualcosa che progressivamente viene “metabolizzato” e che, quindi, chiede di essere alimentato seguendo le nuove spinte dell’In Sé. Nel libro della pedagogia ontopsicologica, si può leggere che “ogni tanto nella vita bisogna disfare tanta
strada precostituita come vantaggio ed entrare in una novità di orizzonte, cioè il rischio è continuo, il gioco è aperto, ma il guadagno è illimitato.” Per questo a volte ci sono delle scelte da fare che hanno una pregnante urgenza: “o le attui e divieni, o non le attui e sei normale numero”.

Si diviene come si sceglie. (Antonio Meneghetti)

Ontopsicologia

Non so di preciso come sono capitato a leggere questi vostri post sul tema dell’ontopsicologia. Quello che so è che mi ci sono imbattuto e – ironia della sorte - mi interessano pure. Parlo di ironia della sorte perché con questi argomenti non ho mai avuto nessuna familiarità. Ai tempi della scuola la materia che più odiavo era proprio la filosofia. Ricordo nottate intere a cercare di memorizzare quei concetti astratti; dosaggi industriali di caffè per tenermi sveglio, ma niente, nulla da fare. Poi ci si metteva pure mia madre con i suoi ipse dixit: “la filosofia è quella cosa con la quale o senza la quale tutto resta uguale”. Bell’incoraggiamento. Del resto la mia passione sono sempre stati i numeri e le cose concrete. Cinque più cinque fa sempre dieci; lo vedi, è sotto i tuoi occhi, è una cosa concreta. Qualche giorno fa però, mentre concedevo un prestito ad un mio cliente (faccio il consulente finanziario in una banca) mi viene da pensare al movimento di quel denaro: un mazzo di rettangoli di carta che passando dalle mani della banca a quelle del cliente e poi dell’architetto, e poi dell’artigiano, e poi dell’arredatore, si trasformeranno in un piano bar dove le persone andranno a divertirsi e a suonare. In un continuo fluire di azioni in trasformazione quel piano bar farà muovere soldi e persone. Allora, pensando a questo movimento mi è rivenuto in mente Eraclito che mi pare dicesse qualcosa come “panta rei”, tutto scorre. È stato lì che ho pensato: “ma allora era vero!”come un fiume che scorre le cose e le persone si trasformano in un continuo divenire. Poi in uno dei vostri post leggo di un In Sé che è olistico - dinamico e mi viene subito da associare le due cose. Leggo che il suo muoversi è sempre centripeto, di riflesso è espansione, non è mai centrifugo e credo proprio di aver capito cosa significhi. La cosa comincia ad interessarmi non poco, …. approfondirò le mie letture di ontopsicologia, perché mi pare di intuire che anche in questo campo cinque più cinque continui a fare dieci

Giovani e consumo

Una ricerca di qualche anno fa dell’istituto tedesco SKM di Dortmund (www.fit-fuers-geld.de) sui consumi dei giovani, condotta su un campione di 471 ragazzi e ragazze tra i 18 e i 24 anni, ha dato risultati molto interessanti. Interrogati su quale fosse la voce di spesa più significativa nel loro budget mensile, il 12,8% di loro ha indicato le serate in discoteca o le sigarette, il 6,6% il consumo di bevande alcoliche, l’8,2% le spese per organizzare feste. L’acquisto di libri e riviste è rimasto relegato ad un magro 3%, ma risulta comunque maggiore all’acquisto di musica (2,5%) e cosmetici (2,1%). Per il cinema i giovani sembrano non spendere molto, tant’è che solo il 2,1% lo indica come maggiore voce di spesa. A farla da padrone è invece l’acquisto di cibo (13,2%) e di vestiti (14%). Certo, soprattutto i dati sulle spese per discoteca, sigarette ed alcool fanno pensare… Interrogato sulla questione giovanile, Antonio Meneghetti sin dagli anni Settanta sosteneva che “in tutto il mondo, la migliore gioventù perde tempo con il bere, con il sesso, con l’andare insieme, qualche volta con la droga, cioè si perdono almeno dieci anni della vita – le donne più dei maschi – dai 14 ai 24 anni (i dieci anni più importanti dell’esistenza): è la perdita di un potenziale enorme che viene distrutto dal soggetto.”

La capacità decisionale e leadership nel giovane

Trattare l’argomento della leadership del giovane e la possibilità di inserirla nel processo decisionale delle istituzioni è un argomento delicato che rischia di cadere in una forma di esibizionismo di intellettualità individualista, come spesso purtroppo accade senza poi trovare quel punto d’incontro utile ad una funzionale dialettica che due elementi come questi sicuramente possono portare. La prima cosa da rilevare è che noi i giovani li sentiamo esprimere il loro punto di vista in discoteca, in televisione, nello spettacolo, insomma dove va l’onda dell’immagine che si brucia presto. E’ interessante sentire il loro protagonismo anche in situazioni come questa e molti dei giovani che sono qui votano, e quindi sono anche loro che determinano il potere di questo pianeta. Consentire loro di provare a dare una presenza critica, una presenza di partecipazione, su qualcosa che interessi l’umano, la società, l’ONU, in qualsiasi campo, da Internet, alla pubblicità, all'economia, è comunque una forma d’intelligenza che va incentivato sempre di più e questo è sicuramente un importante compito di cui l’ONU e l’UNICEF si stanno facendo carico. L’ONU sarà come i migliori la organizzeranno. Questa organizzazione è una possibilità, un’opportunità che tutti riconoscono ed è anche una responsabilità per i giovani intelligenti. Quindi cercate di essere presenti in molti all'interno di questa organizzazione, perché l'ONU è una grande organizzazione, se i migliori l’aiutano, è presente, se invece non ha gli uomini migliori, diventa una inutile cattedrale nel deserto. I giovani invece di soffrire per cose apparentemente importanti che spesso sconvolgono, invece di aspettare di inserirsi negli statuti prestabiliti, è bene che comincino ad evolvere quella intelligenza, quella sapienza che comunque la vita ha dato anche a loro. Una sola regola però: bisogna suonare il proprio protagonismo di valori secondo il pentagramma, secondo i dettami cromatici delle note musicali. Se vogliamo suonare la musica, bisogna studiare la razionalità di base mentale della composizione, dell’armonia etc., e solo dopo di ciò possiamo esprimere la nostra fantasia. Con ciò voglio far capire che il giovane deve comprendere ed evolversi, e non fermasi soltanto a criticare, perché altrimenti rimane ghettizzato nella critica e alla fine distrugge se stesso. Il giovane deve saper entrare nel gioco sociale, nel gioco del comando, usando le tattiche e le strategie razionali del sistema per poi osservare ed evolvere quell’intelligenza che per natura ha. Deve solo imparare le regole razionali, di come si dialoga con gli altri che, infondo, almeno biologicamente sono i nostri padri… in modo che la fiaccola cammini. Il giovane può avere un ruolo importante nel processo decisionale perché ha un tipo di conoscenza con valore strategico. Secondo alcuni studi, l’essere umano è dotato di un nucleo positivo che consente di determinare in qualsiasi impatto ambientale, la scelta più funzionale per quell’individuazione o per le azioni che sta conducendo. Questo, ad esempio, permette al neonato di reagire e di “operare delle scelte” che gli consentono di sopravvivere appena nato, e di condurre i primi mesi di vita pur non vedendo, non avendo il gusto, non pensando etc. L’uomo quindi nasce con questo nucleo positivo che ha uno specifico progetto (che si esplicita in modo diverso da persona a persona) e che se seguito consente di sopravvivere, di crescere e di evolversi. La natura quindi ha fornito l’essere umano di un criterio per capire ciò che è funzionale o meno al proprio progetto, alla propria esistenza. Si tratta di un tipo di conoscenza che nel giovane è ancora presente in larga misura. Purtroppo la successiva educazione, i modelli della società in cui ci si trova ad interagire, sono stati costruiti su un criterio differente, per cui man mano che l’individuo cresce “disimpara” ad utilizzare questo criterio e apprende quello della società, dell’ambiente in cui vive, che non corrisponde al progetto con cui la natura lo ha dotato. Uno dei modi in cui si esplica questo tipo di conoscenza è la classica “intuizione”, sesto senso, fiuto, idea geniale etc. a cui solitamente corrispondono determinate immagini. D’altra parte è innegabile che le idee e le decisioni che hanno dato i maggiori contributi all’uomo sono sempre stati il riscontro storico dell’intuizione individuale del valore di un uomo che poi è andata a beneficio di tutti. Uno degli scopi della nostra organizzazione è l’insegnamento del metodo che permetta al giovane di dare coerenza e continuità di gestione di queste intuizioni, in modo tale da consentire sempre una scelta funzionale in ogni momento per sé e la società in cui vive. Questo insegnamento applicato ad esempio, in una situazione di lavoro consente di dare una risposta immediata di efficienza, di risparmio economico nell’individuazione della scelta ottimale. Infatti è un metodo che permette ad ogni individuo di consapere la propria situazione senza la mediazione di estranei, di modelli culturali o di macchinari-tests. L’Ontopsicologia è uno strumento, una tecnica che dà il passaggio per arrivare dove ognuno è autentico. Non dà una verità, non insegna una legge religiosa, ma certamente dà il mezzo tecnico per arrivare ad essere l’espressione della propria natura autentica. Solo se l'uomo trova quel punto in cui veramente è, capisce che è parola di un grande spirito… ed è bello scoprirlo in se stessi. E’ fondamentale per il processo decisionale, proteggere questa viva curiosità intuitiva che i bambini e i giovani hanno e impedire che questa venga abortita da un sistema educativo e istituzionale che non consente il pieno sviluppo di questo potenziale. Il compito delle istituzioni è quello di trovare il modo di tradurre questa capacità inventiva del giovane nel processo decisionale. Quello che i giovani possono dare è sicuramente un contributo notevole che però spesso non trova la giusta maniera di formalizzazione nelle istituzioni. Investire soprattutto in questo aspetto è quasi un contenere i danni e avere un potenziale con possibilità di rigiro molto più veloce perché si crea una responsabilità individuale nel giovane fin dall’inizio. L’articolo 29 (d) della Convention on the rights of the Child afferma: “States Parties agree that the education of the child shall be directed to the preparation of the child for responsible life in a free society….”. Dall’altra parte i giovani devono capire che quando si vuole dare una cosa, bisogna formalizzarla secondo la tolleranza del ricevente. Le istituzioni dovrebbero ricordare che quando si è giovani, si vive il tempo più difficile, più amaro, è il tempo della pazienza, è il tempo di imparare, non è ancora il tempo di comandare; per cui le istituzioni dovrebbero far capire al giovane che dimostra un’indole più protagonista, più tentato di leaderismo, che potrà arrivare lì soltanto se oggi ha la pazienza di imparare meglio degli altri tutte le regole. Cioè mentre molti giovani diventano "chipsistemici", cioè in sostanza fanno un apprendimento accademico sistemico dove poi restano sepolti, alcuni giovani capiscono che devono imparare questi stereotipi, questi moduli, queste note di un pentagramma, per poi suonare la loro musica irripetibile. In effetti gli stereotipi della nostra società sono buoni, c’è questo senso di universalità, questo senso civico, di democrazia, che ha i suoi contrappunti legali, razionali, economici, che contribuiscono a salvare le proporzioni delle cose tra loro. Il giovane non deve fare l’errore, dal momento che è un "fresco biologico", una punta biologica, di credere che automaticamente è anche il punto intellettuale, il punto del potere: no, è soltanto un buon piatto di biologia, ottimo per il sesso, ottimo per il lavoro senza senso, per la corsa, ottimo per l’atletica, ma ancora non maturo, non stagionato per portare avanti un’azione che fa classicità di valori, cioè che esponga qualcosa che gli altri poi riconoscono anche come valore di evoluzione. Quindi le istituzioni danno degli strumenti, che con umiltà, con pazienza, con coerenza, il deve da solo arrivare a gestire, perché se si brucia, se contrasta, è fuori gioco. I giovani possono impararlo dal loro orgoglio, dalla loro intelligenza, mentre le istituzioni, dal canto loro, possono dire loro: "Proprio per arrivare al potere che noi oggi rappresentiamo, tu devi avere questa preparazione". Non so se le istituzioni possono fare tanto, onestamente forse è più il giovane che deve capire dall’intimo di se stesso. Infine vorrei rilevare una particolare atteggiamento che preclude l’entrata del giovane nel processo decisionale in modo efficiente. E’ tipico dei giovani quando entrano in un sistema, farsi più fiscali dei detentori del fisco Assumono una forma critica direi quasi solipsistica, sono più critici degli adulti di cui loro pensano di essere diversi. Questo però è indice di stupidità, cioè di intelligenza a breve corso, per cui non mi preoccuperei di questo tipo di giovani. In questo caso sono meglio gli anziani, gli adulti. Dice un proverbio africano: “Vede più cose un vecchio seduto che cento giovani in piedi”. Anche le NGO (tra queste l'Associazione Internazionale di Ontopsicologia) dei giovani sono un contributo importante per il processo decisionale. Ma anche qui avrei un piccolo appunto. Nel parlare con questi ragazzi, alla fine dei loro bei progetti mettono come ostacolo la mancanza di fondi e il fatto che i governi e le istituzioni non li aiutano. Secondo me è un po’ un controsenso. I giovani hanno la capacità di inventarsi la possibilità di creare i fondi per la loro associazione. Hanno estro e creatività in abbondanza e posso garantire che ci sono giovani che già lo fanno. Non è una questione di mezzi, ma di mentalità e responsabilità nel trovare questi mezzi. Anche in Paesi in via di sviluppo. E’ lì che si dimostra se si ha veramente stoffa e se veramente si crede in quello che si vuole portare avanti. Aspettare l’aiuto delle istituzioni significa ritardare il progetto che si vuole portare avanti. Aspettare il riconoscimento delle istituzioni significa tradire l’elan vital che si vuole portare avanti. Le istituzioni possono contribuire e agevolare solo dopo che si è dimostrato la validità e la volontà e l’indipendenza di portare avanti un discorso di crescita ed evoluzione.

Antonio Meneghetti: EMERGENZE PLANETARIE, NON BASTA L'ASSISTENZIALISMO. SOLO... ONTOPOLITICA?

“Lo Stato che diventa eccessivamente assistenzialista sottrae all'individuo il proprio dovere naturale di formarsi, di crescere, di responsabilizzarsi”. Da sempre Antonio Meneghetti denuncia i rischi dell' “assistenzialismo”, sia nella dimensione individuale che in quella sociologica, sia nel microcosmo genitori-figli che a livello di comunità nazionali, sia nella pratica pedagogica che nelle scelte politiche. E al riguardo, ribadisce la propria posizione anche ricorrendo ad esempi diversi: come quando ricorda che “i geni dell'umanità, sempre individuali, sono tutti nati dal sacrificio (nessuno viene dalla gratificazione di famiglia”, oppure quando spiega le poderose trasformazioni culturali ed economiche conosciute dalla Cina. “Deng – ricorda Meneghetti – conosceva bene la filosofia del luterano francese Calvino. E quando insegnò ai cinesi che è bello e buono essere ricchi, cominciò a far capire ai cittadini che dovevano cercare di diventarlo per non essere sempre di peso allo Stato”. Più nel dettaglio, secondo l'Ontopsicologia “i benefici dell'assistenzialismo integrale e collettivo devono essere continuati”: “non posso essere me stesso se la dignità di un altro uomo è lesa”, scrive Meneghetti nel suo libro Sistema e Personalità. Il rischio è che però, nel fare questo, si sottovalutino quelle “ombre sinistre di deviazione e regressione” che si annidano proprio “dietro l'aiuto al prossimo perdente”: “un esclusivo biologismo” e “un'indiretta complicità con la disgrazia”. Il punto di sintesi tra queste opposte istanze? Meneghetti l'enunciò per esempio al Palazzo di Vetro a New York in una conferenza del 2001. “I leader devono saper dare la strada all'anima di qualsiasi sottosviluppato (...). Quando ogni uomo legge il mandato della sua anima, realizza tutto questo e migliora il mondo per tutti”. Solo... ontopolitica? Fatto sta che, a dieci anni di distanza, le Nazioni Unite si interrogano sull'effettiva efficacia delle tante azioni intraprese all'insegna degli MDGs (gli “obiettivi di sviluppo del millennio”) per combattere nel mondo fame, malattie, discriminazioni, analfabetismo. Mentre invece, proprio in ambito ONU, sono stati assunti come felice paradigma alcuni progetti fondati sulla metodica ontopsicologica realizzati con successo in Brasile, in un'area del Paese - sottratta così a povertà e subcultura - che da questi progetti, finanziati esclusivamente con risorse private, ha tratto grandi benefici economici e sociali.

La cosa importante, mentre facciamo esperienza per costruire noi stessi, è apprendere i vari stereotipi che gli umani usano nella loro gestione quotidiana

Stereotipo significa: il modello o tipo che fa uguali. È una struttura psicologica condivisa ed esposta in modo costante e continuo in uno o più gruppi di persone. È una struttura di senso, di civiltà, di tradizione, di rigidismo, di morale, di legge. Uno stereotipo caratterizza e specifica. A volte è funzionale, a volte è patologico. In tutti i casi va compreso, perché implica sempre un sapere che in determinati gruppi è potere. Mai contraddirlo direttamente. Meglio provvisoriamente condividerlo e in seguito ricordarlo, perché può sempre servire in ulteriori circostanze. Alla fine, si comprende, che molti assoluti di verità non sono altro che stereotipi, opinioni prefissate di condotta di determinati gruppi etnici, politici, storico-culturali, economici, religiosi. Bisogna imparare molte strade per comprendere dove sta la vita. La vita le usa tutte ma non risiede in nessuna. Tutto è relativo al proprio divenire. (Antonio Meneghetti - Ontopsicologia)

venerdì 12 ottobre 2012

A monte della frustrazione dell’uomo: gli sbagli dell’Io logico-storico

Non è per retorica che si afferma che la maggioranza degli esseri umani vive in una condizione di frustrazione esistenziale. Volendo compiere un’analisi oggettiva del reale, ad esempio, si può provare a togliere alla parola “frustrazione” ogni coloritura emozionale-affettiva e ogni preconcetto che ci farebbe cadere subito in un giudizio di valore. In realtà, il concetto di frustrazione è primariamente riconducibile ad un mero “conto economico”: è uno sforzo pari a 100 con raccolta (se c’è raccolta) pari a 10 o 20. Afferma Antonio Meneghetti che la frustrazione, in sostanza, si determina “da una sproporzione fra erogazione di energia e rientro in perdita”. In linea di massima, l’uomo non solo non raccoglie, ma perde anche il seme. In Ontopsicologia si chiarisce che, nella dinamica fra In Sé ontico e Io logico storico, chi non sbaglia mai è l’In sé ontico: per sua natura, non conosce l’errore. L’In Sé infatti scrive e specifica dentro ogni individuo le leggi universali della natura. È l’Io logico storico, invece, ad avere la responsabilità di scegliere e agire in coerenza con le indicazioni dell’In Sé: se c’è coerenza, la crescita del soggetto è necessaria e inevitabile.

mercoledì 10 ottobre 2012

I tre pericoli per il giovane

Prima di diventare un grande scrittore si impara a leggere e a scrivere. Così prima di usare l’Ontopsicologia in maniera semplice ed elementare bisogna togliere alcuni difetti. Perché anche l’Ontopsicologia se non è capita in modo razionale, concreta e responsabile può diventare una fissazione ideologica che va a rinforzare la frustrazione finale. Lo scopo è poter usare lo strumento “ontopsicologia”, di Antonio Meneghetti, per poter cominciare una nuova generazione di leader. Ma prima bisogna togliere alcuni difetti, alcune difficoltà, alcuni pericoli che il giovane porta con sé e dove sostanzialmente rimane ingannato. I punti da analizzare in questo senso sono tre: il biologismo, l’idealismo critico e il sesso. Non è necessaria la contemporaneità di tutti e tre per considerarli un pericolo. È sufficiente anche uno solo di essi per mettere in discussione la costruzione di una personalità efficiente del giovane nella società. In sostanza il biologismo sarebbe ridurre l’umano ad una sola dimensione, cioè quella biologica, dimenticando la dimensione integrale dell’uomo. Vengono elusi, evitati i grandi riferimenti di conoscenza, intelligenza, felicità, responsabilità, superiorità. Cioè questo grande mondo di stupendi valori non viene sottolineati, non vengono incrementati nei giovani. Oppure tutti questi valori vengono ricattatati, vengono presi per fare servizio esclusivamente ai valori biologici cioè sesso, mamma, papà, famiglia, figli. Per la maggioranza dei giovani fare famiglia diventa lo scopo ultimo, primario, assoluto. Così il giovane perde la grande scuola del leaderismo sociale, l’ambizione, la superiore capacità di fare con capacità di guadagno continuo. Quando per esempio nell’età in cui è ricco di emozioni e prova delle paure, prova delle forme chiuse, questo dipende anche dal fatto che il giovane non ha imparato ancora le forme per verbalizzare, per estendere, per formalizzare i grandi potenziali che lui ha. Cioè non sa parlare. Sa solo emozionarsi e non costruisce niente. E questa è un’energia perduta perché non è formalizzata sul piano storico e sociale per soddisfazione individuale. L’idealismo critico è la trappola dove tutti anche se per un breve periodo, siamo passati durante l’età adolescenziale. È cioè l’illusione di una onnipotenza di poter fare tutto che il giovane avverte quando cresce. Di fatto esiste questo perché comincia la coscienza di una potenzialità personale dove tutto potrà diventare possibile: il corpo cresce, si comincia a vedere con curiosità il mondo, si sperimenta l’indipendenza di pensiero. Tutto questo arriva con abbondanza per natura, ma esiste – nel giovane - ancora l’incapacità storica di poter usare questa forza. Il punto critico dove pedagogicamente bisogna intervenire è la responsabilizzazione del giovane di fronte a questa sua ricchezza personale; è l’insegnamento di una gestione matura di quello che rappresenterà la sua forza futura. Perché questa gratuità è data per un breve periodo della vita, non si può pensare di averla per sempre. E in questo tempo che si costruisce la struttura vincente per lo sviluppo della propria personalità. Il sesso È chiaro che i giovani sono la bellezza fisica di ciò che si riferisce alla struttura del sesso. E quindi là dove l’essere umano fiorisce prima, proprio lì arriva più rapida la malattia e anche la distruzione. Il sesso è un problema enorme e onestamente, molto grande. Non è un problema che nasce dalla natura, ma è un problema che si è formato attraverso le diverse forme di società, di civiltà in cui viviamo. Certamente ha la sua importanza perché la natura ha trasmesso l’eternità della specie esattamente nell’azione sesso cosicché attraverso esso la natura fa l’immortalità della specie. Non è il sesso in sé il problema, ma è lo stereotipo che si usa nel sesso che poi ferisce. Il giovane è biologicamente pronto a livello sessuale in un momento della sua vita senza però avere la maturità psicologica del gesto. Ma ricevendo inoltre continui input dall’esterno che spingono all’azione sessuale, agisce poi a vuoto una funziona che non coglie in maniera funzionale per se stesso. Ma è circondato da stereotipi, condizionamenti che cercano comunque di imbrigliare uno degli istinti più belli della vita.

Ontopsicologia e psicoanalisi

“Anche se il futuro riplasmerà o modificherà questo o quel risultato delle sue ricerche, mai più potranno essere messi a tacere gli interrogativi che Sigmund Freud ha posto all’umanità, (…) la sua opera ha lasciato un’impronta profonda, e siamo certi che, se mai alcuna impresa della nostra specie umana rimarrà indimenticabile, questa sarà proprio l’impresa di Sigmund Freud che ha penetrato la profondità dell’animo umano. Noi tutti non potremmo neppure immaginare il nostro mondo spirituale senza la coraggiosa opera che Freud ha svolto nell’arco della sua esistenza”. (T. Mann , dal discorso inaugurale per gli ottant’anni di Freud, in Storia della Psicoanalisi, di S. Vegetti-Finzi, Mondadori, Milano, 1990, pagg. 3-4) “In quanto intacca ogni residua certezza la psicoanalisi è l’ultima avventura della razionalità occidentale, la ristora della sua debolezza e della sua forza. Mentre testimonia il fallimento del sapere scientifico nella sua pretesa di conoscere, possedere e dominare la realtà, comprova, con la sua stessa presenza, della costante tensione in tal senso. La sonda psicoanalitica non solo recupera progressivamente brandelli di impensabile al pensiero, ma rende modificabile ciò che prima sembrava dominato dal caos, tramite la scoperta delle sue leggi regolative”. (S. Vegetti-Finzi, Mondadori, milano, 1990, pagg. 3-4) “Appena un secolo fa Sigmund Freud introduceva nell’ambiente clinico un nuovo modo di curare alcuni disturbi di origine psicosomatica. Prima di lui non si parlava ancora di ‘terapia della parola’. Se un tempo guadagnarsi da vivere ‘parlando’ avrebbe destato parecchi sospetti, oggi gli psicoterapeuti sono guardati con rispetto (…). Il futuro stato dell’arte guarda comunque alla valutione dei risultti nel processo clinico e la sfida prossima è centrata sulla verifica dei dati, sull’accertamento degli interventi e sulla previsione degli esiti per fornire risposte scientifiche all’utenza potenziale del terzo millennio”. (M. Cesa-Bianchi, Presentazione a E. Giusti, Psicoterapie: Denominatori Comuni, Angeli, 1997) “Ho molto rispetto per Freud, Jung, Rogers e tutta la psicologia contemporanea. Sono stati geniali ma alla fine lasciano l’uomo alle soglie d’una tana da cui non si sa se esce un mostro o c’è il caos. Io conosco soprattutto di là, dove è l’in sé operativo delle funzioni esistenziali. Sotto le soglie fenomenologiche dell’io e super-io, si espone la solare positività dell’in sé dell’uomo. Sono il contatto con esso certifica le funzioni del reale e relativi valori eroici per l’individuo. È esso che fornisce il codice d’interpretazione per qualsiasi fenomenologia (…), è l’in sé che concede il ritrovamento del significante e del significato” (Antonio Meneghetti, L’In Sé dell’uomo, Ontopsicologica Editrice, 1981 Roma, pagg 5-6) per approfondimenti sull'ontopsicologia: A.I.O. associazione internazionale ontopsicologia

La profezia che si autoavvera: dall’ironia della legge di Murphy alle implicazioni secondo l’ottica ontopsicologica

Alzi la mano chi non ricorda la famosa legge di Murphy: “se qualcosa può andare male, stai sicuro che sarà così”. C’è tanto umorismo e ironia attorno a questa saga del pensiero murphologico che rende la cosa anche simpatica, ma ogni volta che la sentivo citare, in circostanze ad hoc, una parte di me ha sempre rabbrividito…tralasciando le “suggestioni” personali, rimango letteralmente allibita quando un giorno scopro su un testo di psicologia (inserito tra l’altro in un corso di medicina!) che è stato effettivamente descritto e codificato un fenomeno noto come “profezia che si autoavvera”. La psicologia riconosce l’esistenza di una distorsione del modo in cui percepiamo l’ambiente intorno a noi che è legata alle nostre aspettative, al punto che ci comportiamo in maniera tale da poter confermare le nostre previsioni. Il modo in cui percepiamo e interpretiamo il mondo può influenzare il modo in cui l’ambiente stesso opera, per cui il risultato è una previsione auto-confermata. Non so voi, ma io ho avuto un vero attimo di sbandamento: nero su bianco si legge che noi, con il nostro atteggiamento e modo di pensare, possiamo condizionare quello che accade, creando la realtà come ce la aspettiamo…e tutto si limita ad un paio di paginette striminzite, come se il fatto di non sapere come spiegare questa cosa la rendesse “secondaria” e trascurabile! Mi metto di nuovo a ricercare ed effettivamente non trovo molto di più su questo argomento, ma ho la conferma ulteriore che questo fenomeno è ben conosciuto in psicologia e, forse, dovrebbe essere più noto a tutti… Il concetto di profezia che si autoavvera è stato introdotto per la prima volta nelle scienze sociali nel 1948 da Robert Merton per descrivere “una supposizione o profezia che, per il solo fatto di essere stata pronunciata, fa realizzare l’avvenimento presunto, aspettato o predetto, confermando il tal modo la propria veridicità”. In sostanza, si tratta di un’opinione che, pur essendo originariamente falsa, per il fatto di essere creduta, conduce ad un comportamento che la fa avverare. Leggendo dalla Blackwell Encyclopedia of Social Psychology (1995), una profezia che si autoavvera si riconosce dal fatto che le credenze originariamente errate di alcune persone (per aspettative, stereotipi, pregiudizi) causano comportamenti che confermano effettivamente queste credenze. Nel 1974 il ricercatore Rosenthal ha messo in luce quello che poi è stato definito “l’effetto Pigmalione”: ad alcuni insegnanti di scuola elementare disse che il gruppo A di bambini aveva riportato punteggi più elevati ai test d’intelligenza rispetto al gruppo B. Dopo un anno scolastico, i bambini del gruppo A avevano effettivamente un rendimento migliore degli altri, nonostante Rosenthal avesse compiuto la distinzione fra i due gruppi in maniera del tutto casuale e senza neanche conoscere i risultati del test d’intelligenza! L’esperimento dimostra che gli insegnati assumono un atteggiamento, influenzato dalle loro aspettative, che condiziona l’esito finale in maniera da realizzare la previsione: stimolano di più quei ragazzi che credono essere i più intelligenti, gli danno più fiducia e più attenzioni a scapito degli altri che si convinceranno di essere “inferiori”. Questo meccanismo subdolo è riconosciuto come essere molto diffuso. Pensiamo al mercato finanziario: se esiste un’informazione diffusa di un crollo imminente (non importa se vera o falsa, basta che sia creduta!), gli investitori possono perdere fiducia, vendere così le proprie azioni e causare realmente il crollo. Ma basta anche semplicemente guardare alle relazioni interpersonali che ci toccano da vicino. A qualcuno può capitare di avere paura di risultare antipatico ma, contemporaneamente, senza neanche accorgersene, si comporta con chiusura e ostilità risultando realmente sgradevole. Risultato: “Ecco, lo sapevo, per l’ennesima volta sono riuscito a rovinare tutto e a risultare ancora antipatico!”. Per non parlare poi di chi pensa che, ad esempio, sia destinato ad essere abbandonato da tutti i partner…la paura genera comportamenti morbosi di gelosia , possessività e via dicendo che non possono che produrre l’esito “sperato”. Eh sì, perché alla fine ci facciamo forti del fatto che la nostra “visione” del mondo si conferma sempre corretta e che quindi abbiamo ragione! Poco male se questo genera sofferenza, angoscia e disperazione…in fondo, così è la vita…o no?? Insomma, la legge di Murphy sembra avere un serio fondamento scientifico? La risposta è sì, ma una spiegazione chiara e razionale di questa legge, in apparenza così ingenuamente ironica, può arrivare dall’Ontopsicologia. Perché? L’Ontopsicologia spiega che sin dalla primissima infanzia riceviamo delle informazioni sulle quali apprendiamo degli schemi di pensiero e quindi di comportamento (stereotipi). Di fatto, ripetiamo questi schemi incessantemente per tutta la vita senza neanche rendercene conto, come in una rappresentazione teatrale di cui siamo ormai degli insuperabili interpreti…ma siamo così calati nel personaggio da aver dimenticato che è solo una finzione e non la realtà! In sostanza, questo copione diventa così potente da diventare il “filtro” attraverso il quale selezioniamo e costruiamo la nostra realtà che, rispetto alla varietà del reale totale, si riduce sempre nelle stesse poche misere scene…in qualunque contesto arriviamo, in ambito personale o professionale, a casa propria o dall’altro capo del mondo, leggiamo le situazioni sempre attraverso lo stesso codice (attraverso il meccanismo di proiezione) e, anzi, siamo così scaltri da riconoscere immediatamente chi sono i soggetti più adatti e meglio predisposti per mettere in atto la solita sceneggiatura (selezione tematica complessuale). È così che possiamo passare una vita fra un partner e l’altro senza renderci conto che in sostanza Laura, Elisa, Anna, Bruna, etc. hanno sempre la stessa “conformazione”, non solo psicologica ma spesso addirittura fisica…oppure che il compagno di banco a scuola ricorda “vagamente” il collega di stanza di oggi, solo che da piccoli si “copiava” e si litigava per essere i primi della classe, oggi si compete per la “strategia più innovativa” che farà colpo sul direttore per essere riconosciuti come i “best performer”…ma la dinamica è sempre la stessa! L’Ontopsicologia è andata ancora oltre, spiegando la capacità dell’attività psichica inconscia di plasmare la realtà ed individuando, attraverso delle scoperte esclusive, cosa sono e come funzionano quelle informazioni che, una volta credute vere, si fanno costruttrici di realtà, cioè i cosiddetti memi. Rimando a testi specifici per gli approfondimenti del caso. Antonio Meneghetti e AAVV: Ontopsicologia e Memetica. Ontopsicologica Editrice, Roma 2003. Robert K Merton: “La profezia che si autoavvera” in Teoria e Struttura sociale, vol. II. Il Mulino, Bologna 1971.

Materialismo marxista e metodologia ontopsicologica: l’esempio della Cina

Nel mese di aprile del 1996, Antonio Meneghetti è a Pechino, in visita al maggior ospedale della città, il Capital Institute of Medicine – Beijing Tongren Hospital, dove tiene la conferenza “La psicosomatica nell’ottica ontopsicologica”, in cui afferma che “il sintomo è un segnale che la vita usa per identificare un errore di comportamento, un errore non in senso moralistico ma semplicemente funzionale” (cfr. “La psicosomatica nell’ottica ontopsicologica”). Tra i presenti ricordiamo: Liu Fu Yuan (Direttore dell’Ospedale, Direttore dell’Associazione Medici Cinesi, Vice-Presidente della Beijing Psychology Health Association) e Deng Yifeng (responsabile dell’Istituto di Psicoterapia). Sempre a Pechino, Meneghetti svolge un seminario su “Medicina e Ontopsicologia” promosso dalla Capital University of Medical Sciences; ad esso partecipano numerosi medici e psichiatri provenienti dalle diverse regioni del Paese. “In Cina erano interessati all’aspetto clinico – ci spiega il Professore – anche perché era più coerente con il materialismo marxista. Mi dicevano: lei è bravo, ma non conosce l’inconscio cinese. La dimostrazione la feci attraverso tre prove. La prima su una cinelogia che li colpì moltissimo. Hanno un romanzo da cui avevano ricavato uno sceneggiato in dodici puntate che stava avendo molto successo. Sapevano che né io né i miei collaboratori potevamo conoscerlo. Io dissi loro: “Fatemi vedere solo i primi cinque minuti e vi dirò come finirà”, e fu così. Rimasero stupefatti. La seconda dimostrazione la feci al direttore dell’ospedale che sosteneva che non conoscendo l’inconscio dei cinesi io non avrei potuto leggere i loro sogni. Gli feci dire un suo sogno e lo puntualizzai più di quello che potesse immaginare. Si resero coscienti che per l’Ontopsicologia era indifferente di che razza o cultura uno sia. Infine feci delle sedute aperte con cui curai dei malati dell’ospedale. Materialisti come sono erano interessati alla biologia, più che alla psicologia”.

La volontà individuale come porta d’ingresso all’attuazione del metodo: il fattore critico di successo

Quando in Ontopsicologia si parla di volontà in relazione alla malattia, possono facilmente nascere dei fraintendimenti: non è la volontà di guarire, di reagire o di voler essere positivi davanti alle avversità…tutto questo non serve, se non individuo ed elimino quell’errore tecnico che mi ha portato alla malattia. Pensiamo ad esempio a quando impariamo uno sport o una disciplina tecnico-artistica: per tutti può arrivare quel momento in cui qualcuno ci fa notare che abbiamo quel “difetto” o “vizio” tecnico ormai diventato abitudine. Che quando montiamo a cavallo abbiamo quel piede sinistro troppo in avanti e non ci permette il giusto contatto con l’animale, oppure che quando suoniamo il pianoforte c’è il polso che in un certo tipo di passaggi perde la posizione corretta e ostacola la fluidità musicale…non ce ne accorgiamo, ma abbiamo assunto degli atteggiamenti che ci inducono a fare sempre lo stesso errore e quindi a non essere efficienti come potremmo. Tutto per un vizio tecnico. Bene, il nostro trainer, maestro, istruttore, ce lo fa notare: ci spiega dove commettiamo l’errore, ci sensibilizza e ci responsabilizza. Da quel momento, siamo noi che dobbiamo scegliere di fare diversamente ogni volta che affrontiamo quel certo passaggio dove puntualmente cadiamo e sbagliamo. Quante volte sembra addirittura impossibile? “Non ci riesco!”, “Ma come faccio? A me viene automatico così…”. Ecco, non è vero. O meglio, è vero che dobbiamo lavorare un po’ per correggere e smantellare quel vizio oramai acquisito, perché si deve superare la pigrizia di cambiare un movimento, un gesto che ormai a noi non “costa fatica” perché va da sé! Infatti, c’è anche un ulteriore fattore da considerare: quando prendiamo un “vizio” che ormai è abitudine, succede che nel nostro organismo si attivano tutta una serie di meccanismi di adattamento volti a compensare le conseguenze di quell’errore. Per esempio, nell’equitazione succede che un piede fuori posto altera tutto l’intero assetto, cioè la posizione della gamba, del bacino, delle spalle, etc. Possiamo imparare a gestire perfettamente un assetto non corretto, ma quando arriva il momento in cui ci viene chiesto di fare di più o qualcosa di nuovo, la magagna esce fuori…Cioè, per noi diventa ancora più difficile accorgerci come quel vizio si riflette e condiziona il risultato finale: abbiamo sempre l’impressione che in noi tutto fili perfettamente liscio, ma non riusciamo poi a capire perché i risultati che otteniamo nelle varie competizioni non sono quelli che vogliamo! Chi è un tecnico serio in una qualunque disciplina tecnico-corporea, sa perfettamente questo. E ci rendiamo conto che, arrivati al momento critico, siamo a noi a determinare se lasciar andare l’automatismo, che però è sbagliato, o decidere di prestare quell’attenzione che ci permette di fare diversamente: forse non “azzeccheremo” subito il gesto corretto ed esatto, ma intanto si comincia a contrastare quel vizio. Ed è attraverso una consapevolezza continua e costante che ad ogni gambata, ad ogni scivolamento delle dita sui tasti, scegliamo di non fare più quel vecchio movimento ma di seguire una nuova indicazione. Cioè, lo sport e le varie discipline tecniche ci dimostrano che non è vero che i “difetti” ce li dobbiamo tenere così come sono: lavorando con un trainer capace e con un serio allenamento, attraverso la volontà e il metodo si cambia e la performance migliora… altrimenti dovremmo credere che gli atleti perdano il loro tempo quando si allenano…altrimenti dovremmo credere che non esista per loro possibilità di migliorarsi e che anche le competizioni non abbiano senso di esistere! Chi ha una passione per una qualunque disciplina, sa che non è così. Se questo suona chiaro parlando di sport, sembra più difficile vederlo applicato alla nostra intera esistenza, nella vita di tutti i giorni, incluso nel momento della malattia: la nostra volontà è quella che entra in gioco nello scegliere se continuare in quell’errore tecnico che oramai conosciamo oppure se seguire una nuova indicazione. In questo senso, l’Ontopsicologia spiega che in ultim’analisi è la volontà del paziente il fattore limitante il successo della cura, perché se la persona non sceglie con la propria volontà responsabile di cambiare quel passaggio sbagliato, la malattia persiste. Se l’atleta, una volta che sa, continua a commettere quell’errore, non potrà certo competere per le Olimpiadi. E a nulla varranno le lamentele e i ricorsi per essere stato escluso.

giovedì 4 ottobre 2012

Scuola di Ontopsicologia

La maggioranza degli studenti che frequentano i corsi di specializzazione in Ontopsicologia sono persone riuscite nella vita, per le quali il processo di studio non è tanto la necessità professionale quanto l’esigenza profonda esistenziale di conoscere integralmente se stesse e realizzare il proprio potenziale vitale ed intellettivo. Ci sono dei laureati che si realizzano professionalmente in qualità di psicologi-consulenti professionali, psicoterapeuti, formatori, svolgono attività pedagogica. Altri applicano in modo consapevole ed attivo le conoscenze ottenute nella propria attività professionale, pur senza diventare psicologi professionali.

L'ontopsicologia va fabbricata

Scrive Ortega y Gasset, ne La ribellione della massa che, quando lo scrittore “impugna la penna per scrivere su di un tema che ha studiato a lungo, deve tenere a mente che il lettore medio, senza mai essersi occupato della materia in questione, se lo legge, non è per imparare qualcosa, ma piuttosto per sentenziare contro l’autore, qualora quanto scritto non coincida con le volgarità che il lettore ha in testa.” Questo sarebbe, secondo Ortega y Gasset, un effetto in campo intellettuale dell’atteggiamento tipico della massa in epoca moderna: l’uomo comune che, in quanto tale, si sente in diritto di emettere un giudizio estetico, morale, politico, etc. così, spiega l’Autore, quei “diritti fondamentali”, che secondo gli intellettuali del XVIII secolo spettavano a ogni cittadino “per nascita”, quei diritti che erano stati enunciati per sottolineare la dignità inalienabile della persona umana, sono diventati pretesti di pretesa privi di fondamento: “inizialmente idea o ideale giuridico, la sovranità dell’individuo non qualificato, dell’individuo umano generico e in quanto tale, è diventata un elemento costitutivo dello stato psicologico dell’uomo medio” (idem). Ora, questa prontezza a sentenziare effettivamente esiste: la presunzione che l’uomo comune ha sviluppato in campo intellettuale lascia stupiti, lascia a volte esterrefatti, e curiosamente sembra essere più lecita in alcuni settori, arbitrariamente definiti. Per esempio – e sto pensando in particolare all’Italia e alla Francia – riguardo all’architettura, la licenza di giudizio sembra universale, e chiunque tranquillamente afferma che tale edificio è “bello”, “brutto”, “orribile”, etc. Spesso una persona che tranquillamente ammette di non essere esperta di vini, di non riconoscere un vino mediocre da uno scelto, risulta del tutto disinibita nel giudicare le qualità architettoniche (o la loro mancanza) in un intervento urbano. A rigore, allora, la formazione del sommelier dovrebbe essere assai più lunga di quella dell’architetto. Si potrebbe aggiungere che questo atteggiamento spesso non si limita all’uomo medio, ma si estende anche a buona parte di quella minoranza che dovrebbe appunto distaccarsi dalla massa, cioè a intellettuali e professori. Anzi, per un curioso giro di dinamiche psicologiche, capita che la persona coltivata abbia una visione particolarmente limitata proprio nel campo che conosce meglio. In tal caso, è perché si tratta di una persona fondamentalmente curiosa, intelligente, quindi quando recepisce una novità, un concetto interessante, magari in un campo poco conosciuto e a maggior ragione affascinante, subito si accende quella voglia di conoscere e di migliorare. Però quando si va a toccare il suo campo, il campo su cui la persona ha costruito la propria superiorità, il proprio ruolo, allora sembra di trovarsi davanti a un altro, molto più dogmatico, molto meno propenso a prendere in esame un’ipotesi contraddittoria rispetto alla propria formazione. Questo si vede con maggiore facilità in quelle discipline che, come la sociologia o la critica d’arte, oggi risultano essere incredibilmente vuote. Tra l’altro, questa capacità di mantenere una curiosità “fanciullesca” all’interno del proprio campo di specializzazione è quello che, sostanzialmente, distingue un “intellettuale vero” da chi, per così dire, “fa il mestiere” di intellettuale. “Meravigliarsi, stupirsi, è iniziare a capire. È lo sport e il lusso specifico dell’intellettuale” (idem). Finora, abbiamo dimostrato che, oggettivamente, il lettore contemporaneo è il più delle volte impreparato e ancor più spesso indisposto a recepire la gran parte delle informazioni che gli potrebbero essere utili. Ma detto questo sorge subito un grande pericolo, per l’intellettuale, che è quello di rifugiarsi in una specie di “torre d’avorio”: ogni opinione può allora ritenersi solipsisticamente vera, dato che comunque non verrà sposata dal lettore in quanto paradossale. L’intellettuale a questo punto cessa di interrogarsi, e cade a sua volta nel dogmatismo del proprio pensiero. In particolare, sto pensando a chi insegna, scrive o parla di Ontopsicologia e non lo fa da “intellettuale vero”. In una certa misura, egli può aspettarsi dalla persona comune come dall’accademico un certo sospetto, una certa diffidenza, al limite anche una condanna, visti i tanti punti in cui l’Ontopsicologia mette in crisi le opinioni volgari e scientifiche diffuse nella nostra società. Ma da questo atteggiamento “tanto non capiranno” si cade molto facilmente in quello “le cose stanno così, e basta”. Il fatto è che il docente di Ontopsicologia, tipicamente, ha scoperto la validità di questa Scuola attraverso un momento di evidenza – il più delle volte per esperienza terapica diretta e/o indiretta. Riconosciuta la validità dall’applicazione particolare, ha abbracciato la teoria in toto, dalla revisione dei concetti della psicanalisi classica, all’integrazione del modello della memetica, all’elaborazione della scolastica, etc. A questo punto, si può sentire inattaccabile, visto che effettivamente si è impadronito di una teoria così completa. Ma proprio in questo iato, tra un’evidenza vissuta in modo profondo, personale (un momento di maturazione, di rivelazione) e altre conoscenze, semplicemente adottate in quanto parte della teoria, sta il potenziale pericolo. Possiamo dire che quella iniziale evidenza – a cui col tempo, lentamente, se ne aggiungono altre – è un punto di ingresso e un punto costitutivo della teoria; l’unico punto che l’individuo conosce in modo autentico. Ma questo punto d’ingresso, in confronto al resto della teoria, non è che una piccolissima parte. Utilizzo il termine teoria proprio perché, a questo punto, per l’individuo si tratta proprio di una teoria, cioè di una tecnica razionale di cui l’individuo non ha ancora avuto la prova applicata, è come la mappa di un territorio di cui ha visitato solo una contrada. Attraverso studio, esperienze e maturazione ci si augura che una parte sempre maggiore della teoria venga vissuta, maturata, riscoperta, e che venga quindi a diventare parte dell’evidenza, del sapere autentico e operativo dell’individuo, e non più sapere acquisito o imparato. Quando l’individuo si trova in una posizione per cui insegna o semplicemente verbalizza l’Ontopsicologia ad altri, per quanto insegna questa parte, è reale; per quanto insegna quella, è dogmatico. Non c’è quindi da meravigliarsi se, paradossalmente, i più dogmatici in fatto di Ontopsicologia sono soprattutto i più giovani. Per chiarificare questo punto può tornare utile quanto scritto da Gabriel Marcel riguardo alla tecnica, visto che comunque stiamo parlando di una tecnica razionale. Marcel mette alla luce il grado in cui la nostra vita ma anche la nostra visione del mondo è venuta a dipendere dai processi tecnici, meccanici che contribuiscono a quello che solitamente chiamiamo “progresso” o “comfort”; sostanzialmente si attua così un movimento per cui la persona trova i suoi punti di riferimento all’esterno. Al punto che “più l’umanità in generale riesce a imporre il suo dominio sulla natura, più il singolo in particolare diventa schiavo di questa stessa conquista”. Sostanzialmente, se “una tecnica di per sé è buona, in quanto incarna una certa potenza autentica della ragione”, si tratta di mettere in questione l’effetto che questa tecnica può avere “su chi, senza aver contribuito a inventarla, ne diviene il beneficiario”. Più avanti, l’Autore estende il ragionamento ai concetti scientifici: “il più grave errore o la peggiore mancanza dello scientismo è probabilmente di non essersi mai chiesto che cosa diventa o come degenera, non dico la scienza, ma una verità scientifica quando viene inculcata a degli esseri che non partecipano in alcun modo all’ascesi o alla conquista scientifica” (Les hommes contre l’humain, 1951). Possiamo quindi dire che la nostra conoscenza dell’Ontopsicologia (e qui va intesa nel senso più largo, come un cammino di pensiero che va oltre la singola scuola e il singolo pensatore) è reale nella misura in cui abbiamo maturato, vissuto e riscoperto ogni suo concetto. Quando invece verbalizziamo i suoi concetti, senza averne maturato il pieno significato, non siamo credibili, e al contrario, come spiegato a proposito della tecnica, procediamo “fuori centro”. E infatti l’immagine dell’Ontopsicologia è stata danneggiata soprattutto da chi ha utilizzato il suo framework concettuale “alla leggera”, senza il pieno dominio. Da chi ha preso la carta per il territorio. L’Ontopsicologia, in effetti, non va solamente studiata; piuttosto, va “fabbricata”. Lo studio non fa che facilitare il sopravvenire di esperienze attraverso cui si forma un sapere operativo, e le conseguenti generalizzazioni. Il contrario – evidentemente ridicolo – sarebbe come spiegare al futuro fabbro le proprietà del metallo, e le relative alterazioni sotto stimolo, e aspettarsi che questo poi, presi fuoco, incudine e martello sappia forgiare un buon artefatto. L’analogia può sembrare forzata, ma è calzante, perché l’umanità ha avuto ottimi fabbri per millenni, ma solo negli ultimi decenni ha iniziato a comprendere le forze intermolecolari per cui la battitura o il raffreddamento alterano le caratteristiche del metallo. Allo stesso modo, l’umanità – ancora oggi al buio sul funzionamento dei neuroni, ben più difficile da sondare delle molecole dei metalli – ha sempre avuto maestri, e la loro formazione è stata più simile a quella del fabbro che a quella dell’accademico. Molti pensatori hanno ammonito riguardo alla facilità con cui si può abusare un pensiero. “Proudhon diceva: ‘Gli intellettuali sono leggeri’, ed è, ahimé! terribilmente vero, per la ragione profonda che l’intellettuale non ha a che fare con una realtà resistente come l’operaio o il contadino, ma lavora con le parole e la carta soffre di tutto” (Marcel, ibid.). E ancora: “gli uomini del parlare, del logos, lo hanno usato senza rispetto né precauzioni, senza rendersi conto che la parola è un sacramento molto delicato da amministrare” (Ortega y Gasset, ibid.). Sostanzialmente, un autentico insegnante di Ontopsicologia si attiene a quella parte dell’Ontopsicologia che ha “fabbricato” con cammino ed esperienza personale, e che ormai riconosce come evidente. Nell’insegnare, ci si dovrebbe limitare a questa parte, che abbiamo veramente “toccato con mano”. In effetti, quando insegniamo questa parte, non sembra di insegnare: sembra di dire cose ovvie. È nell’attenzione dell’interlocutore che scopriamo che in lui facciamo novità. per approfondire: ontopsicologia editrice ontopsicologia Antonio Meneghetti

mercoledì 3 ottobre 2012

La "setta" Ontopsicologia e la politica a Roma: Antonio Meneghetti a Montecitorio, Palazzo Valentini


Presso l’Auletta dei Gruppi Parlamentari di Montecitorio, il 23 febbraio 1990 si tiene la presentazione dei libri “Psicoterapia e società” (oggi “Psicologia, Filosofia, Società”) e “L’In Sé dell’uomo” di Antonio Meneghetti . Apre i lavori il senatore Benedetto Todini che illustra i motivi dell’incontro, tracciando un breve profilo dell’autore e del suo muoversi scientifico, alla ricerca di una metodica “che fosse affidabile a chiunque avesse voluto esercitare con valore, con professionalità, una funzione per l’uomo”. Sempre il Sen. Todini, in rappresentanza della Provincia di Roma, in occasione della consegna del premio “Una scienza per più culture” al Prof. Meneghetti , Prof. A. Krylov e Prof. A. Vidor a Palazzo Valentini il 21 aprile, pone l’accento “sull’importanza che ha, per l’intera collettività e non solo per la scienza in senso stretto, il fatto che ci siano uomini che in modo laico e coraggioso sanno guadagnare ogni giorno nuovi spazi d’intelligenza per la ricerca dell’Uomo”.
Chissà come sarebbe stato descritto questo evento in Occulto Italia? Che titolo avrebbe avuto? "La setta si siede a palazzo"?

Chi è il “ricercatore” secondo l’approccio ontopsicologico di Antonio Meneghetti?

Spesso in Ontopsicologia si parla di esattezza del ricercatore: cosa ci viene in mente quando sentiamo questa frase? A cosa pensiamo quando ci immaginiamo un “ricercatore”? Così su due piedi, potremmo pensare che si tratti di qualcosa che riguarda lo “scienziato”: per qualcuno coincide con chi fa scienza in senso lato, altri pensano allo sperimentatore chiuso nel suo laboratorio fra provette e becchi Bunsen. Beh, la prima cosa da capire nell’approcciare l’ Ontopsicologia è che tutti noi siamo nel nostro quotidiano dei ricercatori. Non bisogna pensare solo alle misurazioni e sperimentazioni della matematica, della fisica o della chimica: tutti noi siamo dei ricercatori, in ogni momento della vostra vita. Essere ricercatori significa affrontare il problema di come scegliere la propria vita, qui e adesso. Siamo dei “ricercatori” quando dobbiamo scegliere cosa mangiare, oppure scegliere se in quel momento è più importante mangiare o dormire, quando dobbiamo scegliere a chi fare quella telefonata per risolvere un problema, o quando dobbiamo capire qual è l’approccio giusto per servire quel cliente e renderlo soddisfatto. Quindi la notizia è la seguente: essere esatti come persone ci riguarda tutti. Significa essere esatti come uomini per avere “la bussola esatta nel viaggio quotidiano della propria esistenza, sia individuale che degli affari”. Il recupero dell’esattezza del ricercatore, dunque, è la chiave di volta che mette a disposizione l’ Ontopsicologia per chi vuole essere, con serietà e coerenza, un operatore efficiente innanzitutto per se stesso, quindi realizzato perché sa cosa è utile e funzionale alla propria identità e lo sceglie. Soprattutto lo scienziato, in quanto costruttore di società, ha bisogno di questa esattezza.

martedì 2 ottobre 2012

Avere o essere? Il dilemma del don chisciotte…

Lo zapping in televisione ogni tanto può rivelarsi produttivo, tanto che l’altra sera mi imbatto in una fiction sul don chisciotte che mi porta a rispolverare una citazione di Cervantes: “Nel mondo non c'è che due razze, diceva mia nonna, quella di chi ha e quella di chi non ha”. Apparentemente banale, ma oggi questo aforisma si veste di un sapore nuovo e faccio un reframe del problema: nel mondo c’è chi ha e c’è chi è. Antonio Meneghetti, che di certo non è un guru ma un uomo dal quale poter imparare molto, distingue nella vita dell’uomo un ciclo biologico e un ciclo psichico. Il primo è caratterizzato proprio dall’avere, dalla soddisfazione dei propri istinti-base ed è il modus vivendi attraverso il quale ripetiamo e conserviamo la specie. Completare il ciclo biologico è uno step necessario per evolversi nel ciclo psichico, caratterizzato dall’assalto metafisico, dalla realizzazione dell’individuo della propria tensione verso l’essere. Avere per essere. Come si inserisce in questo quadro chi non ha? Beh, se l’avere caratterizza la realizzazione del ciclo biologico….il non avere denota una carenza proprio nella gestione dei livelli base della propria esistenza. E questo vale sia che vogliate leggerlo come un non avere materiale che come un non avere psicologico o spirituale. La considerazione infatti è che la maggioranza degli individui non arriva completare neanche il ciclo biologico e basta guardare il mondo animale per rendersene conto: vedete mai un animale un animale “distratto” o che si dimentica della propria economia esistenziale?

Ignorante…a chi? L’effetto rete nelle collettività


I regimi totalitari del passato continuano ad essere sempre oggetto vivo di studio: da Stalin ad Hitler, ci si continua a chiedere come si possa essere arrivati a “quel” punto…
Recentemente è stato pubblicato un libro intitolato “La Biblioteca di Hitler” di Timothy Ryback, un viaggio nella ricca biblioteca del dittatore per consentire la ricostruzione della sua trasformazione da imbianchino a tiranno, da operaio a “guru” delle masse…
Hitler possedeva più di 16mila volumi, di cui alcuni rari e tutti comunque letti e sottolineati. Amava tra gli altri Robinson Crusoe, Don Chisciotte e, cosa perlomeno curiosa, La capanna dello Zio Tom. E non sarebbe un caso isolato. Sembra che Stalin, per superare il suo complesso di inferiorità nei confronti di Lenin, si fosse procurato una biblioteca con oltre ventimila volumi…
La riflessione va a chi crede di poter ricondurre ad un fondamento di ignoranza le origini di periodi storici connotati dalla violenza e dall’odio. O meglio: di quale ignoranza parliamo? Né di quella del tiranno, ma neanche di quella esclusiva delle masse. Si tratta di un’ignoranza “tecnica” delle dinamiche che la psiche delle individui, e quindi delle collettività, è capace di attivare. Parliamo di dinamiche per lo più inconsce, ma non per questo meno potenti, capaci di formalizzare quelle che Antonio Meneghetti definisce “programmazioni universali”. Cosa significa? Che la vittima in un certo senso “sceglie” sempre il proprio carnefice, quindi anche le masse scelgono un individuo sul quale “proiettare” i propri bisogni inconsci, venendo a rappresentare un momento di una programmazione più complessa e articolata. E questo è solo un esempio di quello che in Ontopsicologia si definisce “effetto rete”…

Società e politica, da Platone ad Antonio Meneghetti


Nel De Republica Platone affronta il tema politico, delineando chiaramente come il compito di governare dovesse essere affidato ad una classe di “sapienti”, cioè ai filosofi.
Se questo spunto vi affascina, a prescindere dalle distorsioni e dalle “colorazioni” politiche che ne sono state fatte successivamente, guardate l’approccio alla politica e alla società proposto da Antonio Meneghetti. Il “sapiente” platoniano diventa l’uomo “autentico” capace di operare i valori umanistici: al fondo di qualsiasi opinione, l’uomo vero è sempre d’accordo con ciò che è l’uomo nell’altro. La consulenza di autenticazione, intesa come l’alta psicoterapia che già nell’antichità era riservata ai saggi e non ai malati, diventa lo strumento imprescindibile per oggettivare e qualificare a livelli avanzati la propria dote di natura.
Questa è la connessione autentica e sostanziale che può essere tracciata tra Meneghetti e l’ambito politico, nel senso più elevato del termine. Nessuna ontopolitica, quindi. O meglio, se a qualcuno possa piacere definirla così, allora ben venga anche un’ontopolitica se questa incarna una visione che affonda le sue radici nel sapere degli antichi filosofi.
 E cosa dire di Marcello Dell’Utri? Silvio Berlusconi? Alle strumentalizzazioni facili e gratuite di una politica che si riduce ad essere mero gioco partitico, preferiamo dire: “No, grazie!”.

Onto e i pregiudizi sulle sette in Occulto Italia

Quant'è brutta l'ignoranza, diceva mia nonna... Parole sante. Pensare che in tutto il mondo, da anni ed anni, da una sponda all'altra degli oceani, la psicologia clinica ricorre a strumenti diversi come l'uso della musica (si parla allora per lo più di “musicoterapia”) o del cinema (l'espressione più conosciuta, in questo caso, è “cineterapia”). Ma allora come si fa - se di questi strumenti si avvale l'Ontopsicologia di Antonio Meneghetti, che invero ne teorizza una propria tipicità – a considerarli alla stregua di categorie esoteriche, strumenti per iniziati e, insomma, tipici di una setta, com'è scritto in “Occulto Italia”?