giovedì 4 ottobre 2012

L'ontopsicologia va fabbricata

Scrive Ortega y Gasset, ne La ribellione della massa che, quando lo scrittore “impugna la penna per scrivere su di un tema che ha studiato a lungo, deve tenere a mente che il lettore medio, senza mai essersi occupato della materia in questione, se lo legge, non è per imparare qualcosa, ma piuttosto per sentenziare contro l’autore, qualora quanto scritto non coincida con le volgarità che il lettore ha in testa.” Questo sarebbe, secondo Ortega y Gasset, un effetto in campo intellettuale dell’atteggiamento tipico della massa in epoca moderna: l’uomo comune che, in quanto tale, si sente in diritto di emettere un giudizio estetico, morale, politico, etc. così, spiega l’Autore, quei “diritti fondamentali”, che secondo gli intellettuali del XVIII secolo spettavano a ogni cittadino “per nascita”, quei diritti che erano stati enunciati per sottolineare la dignità inalienabile della persona umana, sono diventati pretesti di pretesa privi di fondamento: “inizialmente idea o ideale giuridico, la sovranità dell’individuo non qualificato, dell’individuo umano generico e in quanto tale, è diventata un elemento costitutivo dello stato psicologico dell’uomo medio” (idem). Ora, questa prontezza a sentenziare effettivamente esiste: la presunzione che l’uomo comune ha sviluppato in campo intellettuale lascia stupiti, lascia a volte esterrefatti, e curiosamente sembra essere più lecita in alcuni settori, arbitrariamente definiti. Per esempio – e sto pensando in particolare all’Italia e alla Francia – riguardo all’architettura, la licenza di giudizio sembra universale, e chiunque tranquillamente afferma che tale edificio è “bello”, “brutto”, “orribile”, etc. Spesso una persona che tranquillamente ammette di non essere esperta di vini, di non riconoscere un vino mediocre da uno scelto, risulta del tutto disinibita nel giudicare le qualità architettoniche (o la loro mancanza) in un intervento urbano. A rigore, allora, la formazione del sommelier dovrebbe essere assai più lunga di quella dell’architetto. Si potrebbe aggiungere che questo atteggiamento spesso non si limita all’uomo medio, ma si estende anche a buona parte di quella minoranza che dovrebbe appunto distaccarsi dalla massa, cioè a intellettuali e professori. Anzi, per un curioso giro di dinamiche psicologiche, capita che la persona coltivata abbia una visione particolarmente limitata proprio nel campo che conosce meglio. In tal caso, è perché si tratta di una persona fondamentalmente curiosa, intelligente, quindi quando recepisce una novità, un concetto interessante, magari in un campo poco conosciuto e a maggior ragione affascinante, subito si accende quella voglia di conoscere e di migliorare. Però quando si va a toccare il suo campo, il campo su cui la persona ha costruito la propria superiorità, il proprio ruolo, allora sembra di trovarsi davanti a un altro, molto più dogmatico, molto meno propenso a prendere in esame un’ipotesi contraddittoria rispetto alla propria formazione. Questo si vede con maggiore facilità in quelle discipline che, come la sociologia o la critica d’arte, oggi risultano essere incredibilmente vuote. Tra l’altro, questa capacità di mantenere una curiosità “fanciullesca” all’interno del proprio campo di specializzazione è quello che, sostanzialmente, distingue un “intellettuale vero” da chi, per così dire, “fa il mestiere” di intellettuale. “Meravigliarsi, stupirsi, è iniziare a capire. È lo sport e il lusso specifico dell’intellettuale” (idem). Finora, abbiamo dimostrato che, oggettivamente, il lettore contemporaneo è il più delle volte impreparato e ancor più spesso indisposto a recepire la gran parte delle informazioni che gli potrebbero essere utili. Ma detto questo sorge subito un grande pericolo, per l’intellettuale, che è quello di rifugiarsi in una specie di “torre d’avorio”: ogni opinione può allora ritenersi solipsisticamente vera, dato che comunque non verrà sposata dal lettore in quanto paradossale. L’intellettuale a questo punto cessa di interrogarsi, e cade a sua volta nel dogmatismo del proprio pensiero. In particolare, sto pensando a chi insegna, scrive o parla di Ontopsicologia e non lo fa da “intellettuale vero”. In una certa misura, egli può aspettarsi dalla persona comune come dall’accademico un certo sospetto, una certa diffidenza, al limite anche una condanna, visti i tanti punti in cui l’Ontopsicologia mette in crisi le opinioni volgari e scientifiche diffuse nella nostra società. Ma da questo atteggiamento “tanto non capiranno” si cade molto facilmente in quello “le cose stanno così, e basta”. Il fatto è che il docente di Ontopsicologia, tipicamente, ha scoperto la validità di questa Scuola attraverso un momento di evidenza – il più delle volte per esperienza terapica diretta e/o indiretta. Riconosciuta la validità dall’applicazione particolare, ha abbracciato la teoria in toto, dalla revisione dei concetti della psicanalisi classica, all’integrazione del modello della memetica, all’elaborazione della scolastica, etc. A questo punto, si può sentire inattaccabile, visto che effettivamente si è impadronito di una teoria così completa. Ma proprio in questo iato, tra un’evidenza vissuta in modo profondo, personale (un momento di maturazione, di rivelazione) e altre conoscenze, semplicemente adottate in quanto parte della teoria, sta il potenziale pericolo. Possiamo dire che quella iniziale evidenza – a cui col tempo, lentamente, se ne aggiungono altre – è un punto di ingresso e un punto costitutivo della teoria; l’unico punto che l’individuo conosce in modo autentico. Ma questo punto d’ingresso, in confronto al resto della teoria, non è che una piccolissima parte. Utilizzo il termine teoria proprio perché, a questo punto, per l’individuo si tratta proprio di una teoria, cioè di una tecnica razionale di cui l’individuo non ha ancora avuto la prova applicata, è come la mappa di un territorio di cui ha visitato solo una contrada. Attraverso studio, esperienze e maturazione ci si augura che una parte sempre maggiore della teoria venga vissuta, maturata, riscoperta, e che venga quindi a diventare parte dell’evidenza, del sapere autentico e operativo dell’individuo, e non più sapere acquisito o imparato. Quando l’individuo si trova in una posizione per cui insegna o semplicemente verbalizza l’Ontopsicologia ad altri, per quanto insegna questa parte, è reale; per quanto insegna quella, è dogmatico. Non c’è quindi da meravigliarsi se, paradossalmente, i più dogmatici in fatto di Ontopsicologia sono soprattutto i più giovani. Per chiarificare questo punto può tornare utile quanto scritto da Gabriel Marcel riguardo alla tecnica, visto che comunque stiamo parlando di una tecnica razionale. Marcel mette alla luce il grado in cui la nostra vita ma anche la nostra visione del mondo è venuta a dipendere dai processi tecnici, meccanici che contribuiscono a quello che solitamente chiamiamo “progresso” o “comfort”; sostanzialmente si attua così un movimento per cui la persona trova i suoi punti di riferimento all’esterno. Al punto che “più l’umanità in generale riesce a imporre il suo dominio sulla natura, più il singolo in particolare diventa schiavo di questa stessa conquista”. Sostanzialmente, se “una tecnica di per sé è buona, in quanto incarna una certa potenza autentica della ragione”, si tratta di mettere in questione l’effetto che questa tecnica può avere “su chi, senza aver contribuito a inventarla, ne diviene il beneficiario”. Più avanti, l’Autore estende il ragionamento ai concetti scientifici: “il più grave errore o la peggiore mancanza dello scientismo è probabilmente di non essersi mai chiesto che cosa diventa o come degenera, non dico la scienza, ma una verità scientifica quando viene inculcata a degli esseri che non partecipano in alcun modo all’ascesi o alla conquista scientifica” (Les hommes contre l’humain, 1951). Possiamo quindi dire che la nostra conoscenza dell’Ontopsicologia (e qui va intesa nel senso più largo, come un cammino di pensiero che va oltre la singola scuola e il singolo pensatore) è reale nella misura in cui abbiamo maturato, vissuto e riscoperto ogni suo concetto. Quando invece verbalizziamo i suoi concetti, senza averne maturato il pieno significato, non siamo credibili, e al contrario, come spiegato a proposito della tecnica, procediamo “fuori centro”. E infatti l’immagine dell’Ontopsicologia è stata danneggiata soprattutto da chi ha utilizzato il suo framework concettuale “alla leggera”, senza il pieno dominio. Da chi ha preso la carta per il territorio. L’Ontopsicologia, in effetti, non va solamente studiata; piuttosto, va “fabbricata”. Lo studio non fa che facilitare il sopravvenire di esperienze attraverso cui si forma un sapere operativo, e le conseguenti generalizzazioni. Il contrario – evidentemente ridicolo – sarebbe come spiegare al futuro fabbro le proprietà del metallo, e le relative alterazioni sotto stimolo, e aspettarsi che questo poi, presi fuoco, incudine e martello sappia forgiare un buon artefatto. L’analogia può sembrare forzata, ma è calzante, perché l’umanità ha avuto ottimi fabbri per millenni, ma solo negli ultimi decenni ha iniziato a comprendere le forze intermolecolari per cui la battitura o il raffreddamento alterano le caratteristiche del metallo. Allo stesso modo, l’umanità – ancora oggi al buio sul funzionamento dei neuroni, ben più difficile da sondare delle molecole dei metalli – ha sempre avuto maestri, e la loro formazione è stata più simile a quella del fabbro che a quella dell’accademico. Molti pensatori hanno ammonito riguardo alla facilità con cui si può abusare un pensiero. “Proudhon diceva: ‘Gli intellettuali sono leggeri’, ed è, ahimé! terribilmente vero, per la ragione profonda che l’intellettuale non ha a che fare con una realtà resistente come l’operaio o il contadino, ma lavora con le parole e la carta soffre di tutto” (Marcel, ibid.). E ancora: “gli uomini del parlare, del logos, lo hanno usato senza rispetto né precauzioni, senza rendersi conto che la parola è un sacramento molto delicato da amministrare” (Ortega y Gasset, ibid.). Sostanzialmente, un autentico insegnante di Ontopsicologia si attiene a quella parte dell’Ontopsicologia che ha “fabbricato” con cammino ed esperienza personale, e che ormai riconosce come evidente. Nell’insegnare, ci si dovrebbe limitare a questa parte, che abbiamo veramente “toccato con mano”. In effetti, quando insegniamo questa parte, non sembra di insegnare: sembra di dire cose ovvie. È nell’attenzione dell’interlocutore che scopriamo che in lui facciamo novità. per approfondire: ontopsicologia editrice ontopsicologia Antonio Meneghetti